21/03/2023

GAM: Bancari in sofferenza, come cambia la politica monetaria delle banche centrali?

Le vicende di questi giorni evocano il 2008, le prime reazioni sono state fortemente condizionate dalla paura del rischio contagio. In pochi giorni la capitalizzazione globale delle banche è diminuita di circa cinquecento miliardi di dollari, l’indice settoriale americano è sceso del 18%, quello europeo del 15%.

Le differenze con il 2008 sono già state messe in evidenza da analisti e commentatori, alcune però “giocano contro”: su tutte l’inflazione, allora inesistente, poi le difficoltà economiche della Cina che ne riducono gli spazi di manovra, in ultimo l’eccezionalità dello scenario politico, una impensabile, tragica guerra in Europa e crescenti tensioni nel Pacifico. La Federal Reserve dovrà soppesare tutti questi aspetti nelle decisioni sui tassi nella riunione di questa settimana. 

La Banca Centrale Europea ha aumentato i tassi di riferimento di 50 punti base, la priorità è stroncare l’inflazione, ha detto Christine Lagarde, per quanto riguarda le banche non mancano gli strumenti di intervento. Il punto cruciale è il restringimento del sentiero della Fed, stretta tra i due obiettivi inconciliabili della lotta all’inflazione e della stabilità finanziaria. Le piccole banche americane sono tutt’altro che piccole se considerate come aggregato, la stretta creditizia incrinerebbe la fiducia sulla protezione dei depositanti non assicurati.

D’altro canto, l’obiettivo prioritario della politica monetaria è la lotta all’inflazione. L’inflazione non se ne va da sola, il vecchio adagio “the best cure for high prices is high prices” è semplicemente falso.

 

I prezzi alti non sono l’antidoto ai prezzi alti perché la diminuzione della domanda non basta se non si riducono le aspettative sull’inflazione futura. La Federal Reserve non dovrebbe allentare il programma di contrasto all’inflazione, la pensa così la maggioranza dei 43 economisti interpellati dal Financial Times, la Fed continuerà a adeguare i tassi; per la metà del panel intervistato il picco dei tassi sarà tra il 5,5% e il 6% quest’anno. Si tratta di proiezioni più aggressive rispetto ai livelli incorporati dai prezzi dei futures sui Fed Funds, differenze che corroborano l’incertezza su come la banca centrale americana supererà questo stretto passaggio, nella riunione di mercoledì e nei prossimi mesi.

 

È una storia americana. La Silicon Valley Bank e le altre banche sono state investite da sollecitazioni che non si attagliano al settore bancario europeo: inadeguata gestione del portafoglio, eccessivo rischio tasso, forte squilibrio tra attività e passività a fronte di limitata disponibilità di contanti. Condizioni lontane dalle banche europee che tendono a tenere la liquidità presso le banche centrali e sono dotate di rigorosi processi di gestione del rischio ALM.

 

Un altro aspetto che rende la storia “americana” è la diversa struttura della competizione nei mercati dei servizi finanziari, le banche europee sono finanziate da depositi di famiglie e “small business”, ampiamente diversificati e stabili. Un po’ per la struttura del mercato, un po’ per la diversa velocità della ripresa, in Europa la crescita dei prestiti è stata limitata mentre è cresciuta negli Stati Uniti.

 

I movimenti di mercato sono stati ampi e drammatici, il rendimento del titolo governativo americano a due anni è calato di 70 punti base in due giorni, quello del Treasury a dieci anni è sceso di 40 punti base, esattamente come il bund tedesco di pari scadenza.

 

L’aumento dei tassi comporta migliori prospettive nei margini dell’attività bancaria, ma porta anche la svalutazione dei titoli in portafoglio, siamo ancora al check-out dell’Hotel California, l’uscita dall’era del denaro facile sembra a portata di mano, eppure scivola sempre più avanti nel tempo. Ci aveva provato Yellen nel 2014 senza successo, l’ultimo tentativo di normalizzazione di Powell è inciampato nella vulnerabilità delle banche regionali. L’era dei tassi a zero è finita ma la strada del ritorno alla normalità è lastricata di buone intenzioni e di ostacoli, gli errori di omissione e le conseguenze della brutalità delle azioni del 2022 complicano la vita ai banchieri centrali, impongono prudenza agli investitori.

 

Le notizie di queste ore sono contraddittorie, da una parte l’intervento chirurgico per una importante banca europea, dall’altra il trattamento dei sottoscrittori di titoli AT1 altera le regole del capitale delle banche, ci saranno contraccolpi in questa porzione di mercato. Per contenere le reazioni, le banche centrali hanno facilitato l’accesso alla liquidità portando a giornaliere le aste settimanali, come venne fatto nell’emergenza Covid, l’obiettivo è naturalmente quello di mitigare le tensioni nel mercato interbancario e nei mercati finanziari.

 

In queste ore i titoli bancari europei pagano un pegno pesante, restiamo dell’idea che l’emotività stia facendo premio sulla realtà dei numeri, il settore bancario europeo è scambiato a un P/E storicamente basso, il mercato sta sottovalutando le prospettive di utili e rendimento del capitale delle banche europee derivanti dall’aumento dei tassi di interesse, stanno tornando a livelli di rendimento del capitale proprio visti l’ultima volta prima del 2008.

 

L’esercizio è sempre quello di distinguere i rumori dai segnali, l’emotività di breve termine dai dati e dalle prospettive di medio e più lungo termine in cui sarà ancora l’inflazione a orientare i movimenti dei tassi. Le scelte di investimento non potranno che restare orientate al lungo periodo visto che la forte volatilità e il susseguirsi delle sorprese opacizza l’utilità degli adeguamenti tattici del portafoglio. La diffidenza verso le banche è comprensibile, questi giorni di passione richiedono estrema attenzione e mente fredda, “ci vorrà tempo prima che gli investitori si sentano nuovamente a proprio agio con le azioni delle banche europee” scrive un analista.

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