A cura di Marie Thibout, Economist and Senior Strategist, Mirabaud
Il dollaro è e rimarrà la valuta di riferimento per il prossimo futuro.
Rappresenta circa l’80% delle transizioni del commercio globale, il 90% delle transazioni in valuta estera, il 98% del collaterale delle stablecoin e la metà delle riserve valutarie mondiali.
I titoli del Tesoro USA sono l’asset di riserva preferito a livello globale.
Negli ultimi 15 anni, gli investitori esteri hanno beneficiato del duplice vantaggio di rendimenti nominali interessanti e dell’apprezzamento della valuta. Tuttavia, riteniamo che vi siano validi motivi, nel medio termine, per avere un posizionamento prudente sul dollaro.
Il quadro fiscale USA sta peggiorando in modo significativo. Il debito pubblico supera ormai il 120% del PIL, più del doppio rispetto a 15 anni fa, mentre il deficit fiscale si attesta intorno al 6% del PIL. Ancora più preoccupante è il fatto che la spesa obbligatoria (che comprende sanità, interessi netti, welfare, sussidi per i veterani e spese militari) rappresenta oggi circa il 75% della spesa federale complessiva e cresce a un tasso annuo del 10% circa. Il Big Beautiful Bill difficilmente riuscirà a invertire queste tendenze, poiché prevede consistenti tagli fiscali e un aumento della spesa pubblica discrezionale senza corrispondenti risparmi. Storicamente, i Paesi non sono stati in grado di “trovare una via d’uscita” da un debito così elevato e non ci sono elementi che suggeriscano che questa volta sarà diverso.
Gli sforzi compiuti dal governo statunitense per riequilibrare il commercio globale, attraverso dazi, il reshoring della catena di approvvigionamento o la politica industriale, contribuiranno a ridurre gli squilibri esterni nel lungo termine e ad aumentare ulteriormente le entrate pubbliche. Tuttavia, farlo senza sacrificare la crescita interna è un processo complesso e delicato. Pertanto, le aspettative di un miglioramento significativo dei deficit commerciali netti nei prossimi anni dovrebbero rimanere modeste.
In questo contesto, il rischio è che gli investitori obbligazionari possano iniziare a richiedere rendimenti nominali più elevati per compensare l'aumento del rischio di credito statunitense. In alternativa, o anche in modo sequenziale, potrebbe essere necessario limitare i rendimenti attraverso un intervento politico. Tra i due scenari, riteniamo che il secondo sia più plausibile. I policymaker sembrano sempre più disposti a tollerare, o addirittura a pilotare, un indebolimento del dollaro per salvaguardare la crescita interna. I recenti commenti della Casa Bianca sulla forza del dollaro, i dibattiti riemersi sull'indipendenza della Federal Reserve e le voci su un coordinamento valutario globale o su interventi in stile “accordo” indicano tutti una crescente propensione politica verso un calo controllato del valore del dollaro.
Nel breve termine, ciò che occorre tenere presente è che le aspettative sulla forza dell'economia statunitense, in particolare sul fronte occupazionale, potrebbero modificare il percorso previsto della politica monetaria. Quanto accaduto negli ultimi giorni di luglio è un chiaro esempio di questa dinamica e siamo fortemente convinti che l'economia USA abbia bisogno di una spinta da parte della FED, che si traduca in 2 tagli quest'anno e altri 2-3 l'anno prossimo.
Nel frattempo, gli investitori stranieri detengono attualmente 31,4mila miliardi di dollari in azioni e titoli a reddito fisso USA, mentre gli Stati Uniti registrano un deficit netto degli investimenti internazionali pari a circa 26mila miliardi di dollari, ovvero circa il 90% del PIL. Non riteniamo che il rischio principale per il dollaro risieda in una vendita massiccia di attività in USD. Piuttosto, la dinamica più sottile ma potenzialmente potente è un cambiamento nel comportamento di copertura. Con il calo dei tassi di interesse a breve termine negli Stati Uniti e la diminuzione dei costi di copertura, un numero maggiore di investitori stranieri, in particolare europei e giapponesi, potrebbe aumentare le proprie coperture in USD. Anche un consenso più cauto sul dollaro dovrebbe influire su queste decisioni. I report della BRI e di altre istituzioni private suggeriscono che i grandi investitori istituzionali di tutto il mondo sono strutturalmente e storicamente sottocoperti in dollari. La copertura comporta la vendita di contratti a termine in dollari e la quota della posizione non coperta può esercitare una pressione significativa sul flusso della valuta. Infine, finanziare la reindustrializzazione e la rimilitarizzazione dell'Europa significa anche la necessità di riallocare nuovo capitale su questa sponda dell'oceano.
Allo stesso tempo, le alternative al dollaro continuano a performare bene. Il prezzo dell'oro è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni, beneficiando del calo dei rendimenti reali, dell'instabilità fiscale e dell'aumento della domanda da parte delle banche centrali. Tutti questi fattori, insieme alle crescenti incertezze geopolitiche, ci portano a ritenere che l'oro debba rimanere una posizione strategica nei portafogli. Allo stesso modo, gli investitori istituzionali stanno adottando sempre più le criptovalute e, con il calo della volatilità e il miglioramento dell'accessibilità, anche queste stanno diventando una riserva di valore complementare credibile, sebbene ad alto rischio, per il patrimonio privato.