A cura di Patrice Gautry - Chief Economist di Union Bancaire Privée
Privare la Fed della sua autonomia non è nell'interesse di Donald Trump: i costi sarebbero troppo elevati, spingendo al rialzo i tassi di mercato e indebolendo il dollaro. La sua strategia consiste invece nell'assicurarsi che la maggioranza dei governatori della Fed si allinei alla dottrina monetaria dell'amministrazione.
Entro il 2026, il Federal Open Market Committee adotterà quasi certamente una posizione più accomodante, ovvero tenderà a dare maggiore priorità al rallentamento della crescita e all'aumento della disoccupazione rispetto ai rischi di inflazione. Tuttavia, sarà difficile soddisfare le richieste di Scott Bessent, che ha chiesto tagli immediati dei tassi per un totale di 150 punti base. Un allentamento così aggressivo rischierebbe di alimentare l'inflazione piuttosto che frenarla, il che non è una strategia produttiva per un'amministrazione che cerca di ridurre i rendimenti a lungo termine.
Finora i mercati non hanno scontato il rischio di tagli prematuri dei tassi imposti da una Fed subordinata alla Casa Bianca. Sebbene il dollaro si sia indebolito rispetto alle principali valute, i rendimenti a lungo termine non hanno mostrato quel tipo di stress solitamente associato ai dubbi sull'indipendenza della banca centrale.
L'emergere di un premio di rischio nella parte finale della curva sarebbe in netto contrasto con il duplice obiettivo di Washington: il Tesoro sta cercando sempre più di finanziarsi nella parte iniziale della curva, sostenendo al contempo la crescita. Tassi a breve più bassi servono agli scopi del governo, ma tassi a più lungo termine superiori peserebbero sul rifinanziamento delle imprese e del settore immobiliare.
Il premio di rischio sui Treasury a lungo termine rimane modesto, riflettendo le aspettative sull'attuale posizione della Fed. Tuttavia, il pericolo maggiore a medio termine non risiede nelle sorprese inflazionistiche o nell'aumento del deficit fiscale (rischi che il mercato sa come prezzare), ma nella disfunzione della governance statunitense, con implicazioni che vanno ben oltre la Fed.
I mercati potrebbero iniziare a mettere in discussione non solo il ruolo della Fed, ma anche la credibilità delle agenzie statunitensi più in generale. Se i dati economici venissero screditati per non aver soddisfatto le aspettative del governo, o se chi li produce venisse messo da parte, o addirittura se tali dati non venissero più pubblicati, potrebbe emergere un grave rischio di governance per l'affidabilità creditizia degli Stati Uniti, radicato nei dubbi sulla trasparenza e l'affidabilità delle statistiche ufficiali. Una Fed ridotta a poco più che un canale per le direttive politiche perseguirebbe una posizione eccessivamente accomodante, compromettendo sia i rendimenti che il dollaro.
La revisione del mandato della Fed è già parte dell'agenda di Trump, in particolare per quanto riguarda la regolamentazione finanziaria, che potrebbe essere sottoposta al controllo del Tesoro; sono già in corso discussioni sull'allentamento delle norme bancarie.
Il presidente degli Stati Uniti e i suoi stretti collaboratori sostengono la dottrina dell'“esecutivo unitario”, in base alla quale Donald Trump detiene da solo il potere esecutivo e la sua interpretazione della legge è soggetta solo al controllo della Corte Suprema degli Stati Uniti. In un contesto di questo tipo, le agenzie sarebbero ridotte ad eseguire la politica piuttosto che a definirla. La Federal Reserve diventerebbe solo un'altra agenzia, indipendente solo di nome, con un ruolo limitato in caso di crisi finanziaria, una capacità ridotta come prestatore di ultima istanza e come regolatore. Inoltre, perderebbe anche la capacità di fornire liquidità in dollari a basso costo ad altre banche centrali in caso di shock sistemico. Eppure è difficile immaginare come gli Stati Uniti avrebbero potuto uscire dalla crisi del 2008, dalla pandemia di Covid-19 o dalle turbolenze bancarie regionali senza l'intervento della Fed. Si tratta di rischi che meritano una seria considerazione, ma i mercati non ne hanno ancora tenuti conto.
Segnali contrastanti
I mercati finanziari si sono adattati alle incertezze intrinseche della politica statunitense nell'era Trump 2.0, privilegiando scenari “Goldilocks” che non sono né eccessivamente ottimistici né pessimistici. Infatti, anche in contesti che potrebbero apparire particolarmente sfavorevoli, sia in termini di dazi, geopolitica o crescente pressione sulla Fed, la crescita globale sta resistendo (con un tasso previsto del 3% sia nel 2025 che nel 2026), mentre l'attività statunitense si attesta intorno all'1,5%. Le aziende statunitensi, in particolare quelle con la capacità di contrarre prestiti sui mercati e investire, stanno registrando buoni risultati. L'ultima stagione degli utili ha dimostrato che, nonostante le turbolenze, i profitti resistono e le previsioni sono incoraggianti, con margini che rimangono a livelli senza precedenti.